Storia di un eroe silenzioso: lettera di un volontario della Croce Rossa

Faccio volontariato in ambulanza dal 1999 e non ne avevo mai scritto. Non perché non sia una bella esperienza da raccontare, anzi, ma perché ho sempre avuto il timore che mettere questa esperienza in parole impoverisca un po' quello che è, o possa arrivare in modo distorto

Poi, in una mattina come quella di martedì 20 ottobre, intorno alle 5.45, avviene un brutto incidente. Incidente tra due veicoli, restano ferite tre su quattro delle persone a bordo. Solo il quarto è miracolosamente illeso. Nulla di diverso da uno dei tanti incidenti a cui un soccorritore ahimè si abitua. Non per cinismo, eh, solo per tenere quella «giusta distanza» che fa la differenza nel momento in cui devi aiutare chi sta male. E devi essere lucido.

Cosa c’è di diverso nell’incidente di martedì? Che uno dei mezzi coinvolti era proprio un’ambulanza. Che non correva in sirena per andare a comprare una pizza – lo so, spesso lo pensate quando ci vedete veloci nel traffico, ma non è vero. Non succede. Quell’ambulanza attraversava un incrocio in sirena (e con i lampeggianti accesi, come prescritto dal codice della strada) per soccorrere un paziente in codice giallo. In quella ambulanza c’erano tre soccorritori. Tre VOLONTARI.

L’incidente di martedì mi tocca da vicino perché l’ambulanza coinvolta fa parte della mia associazione. Incontro quei ragazzi ai cambi turno (chi smonta a qualsiasi ora del giorno o della notte, in settimana, la domenica, a Natale, chi si appresta a iniziare dopo una giornata di lavoro). L’autista è un “anziano” volontario che dedica quasi tutto il suo tempo libero a prendersi cura degli altri, non un “invasato” ma un autista di lunga esperienza, famoso tra noi per l’estrema prudenza con cui guida. Uno che non si risparmia mai: martedì, dopo l’impatto, ha soccorso la sua collega senza esitare. Con un braccio rotto.

In ambulanza io ricopro il ruolo di caposervizio, ossia di colui che gestisce il servizio (l’approccio al paziente, la valutazione del caso) e l’equipaggio (decide chi fa cosa). L’essere caposervizio oggi mi fa nascere un nuovo senso di “responsabilità”: perché io rispondo delle persone che escono con me, il MIO equipaggio. Sarà che sto “invecchiando” ma sempre più spesso mi chiedo: “E se ci facessimo male?”. E poi penso ai familiari.

Per esperienza personale so quanto sia difficile per i familiari comprendere cosa porti un figlio a dedicare buona parte del suo tempo libero agli altri, con i rischi che questo comporta. Anche perché scegliere di fare il volontario non significa “quando ho tempo vado in ambulanza”. Significa prendere un impegno preciso sapendo che una tua mancanza rischia di far saltare il mezzo di soccorso. Significa che se manchi, i tuoi colleghi dovranno faticare il doppio. Significa che in questo Stato, che affida il primo soccorso principalmente al volontariato, rischia di andare in tilt un servizio fondamentale.

Sono convinta che la parte più difficile, nel fare volontariato, sia entrare in contatto con il dolore degli altri. Non solo quello del paziente (certo, vedere una persona che soffre fisicamente non è bello, ma in fondo sei concentrato sulle procedure che lo aiuteranno a stare meglio) quanto quello emotivo dei parenti. Sul dolore dell’anima non c’è nulla che tu possa fare se non piccoli gesti gentili che lo attenuino, ma che spesso non guariscono.

E proprio questo essere soccorritore così, nonostante tutto, nonostante il dolore, mi riporta al motivo per cui ho deciso di iniziare a fare la volontaria: da ragazzina avevo un fidanzato che lo faceva. Mi raccontava tutto. Appena diciassettenne mi sembrava un eroe. Lo ascoltavo e cresceva dentro di me la volontà di farlo anch’io. Nell’estate dei miei 18 anni, finita la scuola, ho iniziato questa esperienza. E da allora so che gli eroi non esistono nella realtà: sono solo uomini comuni che fanno ciò che sentono giusto.

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