Alle 8:30 del 20 maggio 1999, in via Salaria a Roma, Massimo D’Antona, giurista e docente universitario, venne ucciso mentre si recava presso il suo studio legale.
Massimo D’Antona, 51 anni, era un avvocato, docente di diritto del lavoro e ex sottosegretario ai Trasporti. Inoltre, era il braccio destro del ministro Bassolino. La sua vita si concluse tragicamente sull’asfalto di via Salaria, raggiunto da una raffica di colpi di calibro 38. Questo assassinio segnò un momento di sgomento e dolore per tutta l’Italia.
Poche ore dopo l’attentato, arrivò la rivendicazione delle cosiddette “Nuove Brigate Rosse”. In un documento firmato dai terroristi, si dichiarava che D’Antona era stato “scelto” come bersaglio a causa del suo ruolo nella ristrutturazione del mercato del lavoro. Venne “punito” per essere un mediatore del conflitto sociale. Questo gesto, in un contesto di violenza come quello degli anni di Piombo, sembrava ancora più privo di senso, se di senso si può parlare quando si tratta di atti terroristici.
La morte di Massimo D’Antona fu inspiegabile e imprevedibile. Un assassinio che lasciò un profondo sgomento e un insanabile senso di perdita. La perdita di un lavoratore, di un intellettuale, di un padre di famiglia, di un uomo convinto di poter contribuire positivamente alla società italiana. D’Antona era una Persona Perbene, il cui impegno e dedizione erano rivolti al miglioramento del Paese.